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Storia di ieri. La vita letteraria [ versione stampabile ]


di Paolo Briganti

Renzo Pezzani

Il nostro excursus storico-letterario parmense degli anni 1927-1945 può – felicemente – avere inizio con Renzo Pezzani (Parma, 1898 – Castiglione Torinese, 1951) (1), che, noto a Parma soprattutto quale poeta in dialetto, noi vogliamo invece proporre/riproporre in questa sede quale poeta in lingua (2). Tracce biografiche essenziali degli anni in questione: nella primavera del ’28, Pezzani fonda la casa editrice Le Muse; nel ’30 prende a collaborare alla rivista «Boccadoro», di cui poi diviene direttore; nel 1940 è richiamato alle armi, ma ne è congedato dopo pochi mesi; nel 1941 abbandona definitivamente la SEI (per cui lavorava dal ’26) e intraprende, nel ’42, un’attività editoriale autonoma con le edizioni “Il Verdone”, fino al fallimento del ’45; nel 1945 svolge attività partigiana antifascista a Torino e dintorni, aderendo poi al Partito Comunista Italiano e collaborando a «l’Unità». In questo arco temporale, Pezzani pubblica numerose raccolte poetiche in lingua (3), almeno tre delle quali degne di particolare attenzione: Angeli verdi (1932), Belverde (1935) e Il fuoco dei poveri (1939).  La diffusa ispirazione pascoliana è particolarmente evidente in Angeli Verdi (che sono poi gli alberi, i vegetali); si vedano esemplarmente le seguenti facili quartine di endecasillabi di Elogio del giardino:

Elogio del giardino

Bastano poche aiuole; una rosella
che fiorisca improvvisa un bel mattino;
un geranio, un cespuglio di mortella
ed ecco fatto un piccolo giardino.

Circonda la mia casa, e un cancelletto
lo difende dal mondo più rapace.
Non è più grande del mio fazzoletto
eppure vi sta comoda la Pace.

Le stagioni lo fanno colorito
come il paffuto volto d’un bambino:
ma lo lasciano poi solo e svestito
a non mostrar di sé che zolla e spino.

Di primavera è tutto una primizia,
un canestro di doni che risplende
di gioia; una barriera che contende,
se mai s’affacci, il passo alla malizia.

Questo componimento è anche un manifesto implicitamente antidannunziano (entro un più ampio understatement di tono crepuscolare), con l’elogio – di lunga ascendenza classica – della vita rustica, appartata, semplice e modesta: non la natura aperta e sconfinata di campi e boschi, ma una riduzione semiurbana (o suburbana) moderna – pascoliana e crepuscolare – al giardino, cioè al minimo ritaglio rustico dentro le mura cittadine, o in prossimità d’esse, il francobollo di terra che conserva (o simula) la vita della /con la natura e, contemporaneamente, difende tutt’intorno «dal mondo più rapace». Vi si legge l’enunciazione esplicita della “conclusione” protettiva («circonda la mia casa»), di preciso stampo pascoliano: quando viene primavera, diventa «una barriera che contende, / se mai s’affacci, il passo alla malizia». La malizia: cioè la minaccia capitale dell’innocenza. Già: se dovessimo indicare una parola-chiave per Pezzani, questa è proprio l’innocenza, una parola rischiosa e impegnativa per un poeta contemporaneo, una parola che lui invece usa senza remore, “ingenuamente”; ma l’ingenuità, che è il contrario della malizia, è per l’appunto un tratto che rivela l’innocenza in atto o una condizione che a essa conduce. Agnello (da Belverde, 1935) è, in questo senso, il testo dell’innocenza nella sua più fiduciosa e ingenua, ma insieme sottilmente dolorosa, esposizione:

Agnello

Nessuno ti pettina i ricci,
nessuno ti bacia sul muso,
la mamma è partita dal chiuso,
sei piccolo e senza capricci.

L’erbetta più tenera e fine
la cerchi nel prato da te;
si sente tremare il tuo bee
per vaste pianure e colline.

Per quel campanello che scuoti
le valli non sono più mute;
la terra imbandita di rute
riporti ad incanti remoti.

Guidato a più libera altura
tra boschi, torrenti e perigli,
mio piccolo agnello somigli
un poco di neve che dura.

E se questo sole d’aprile
sciogliesse te in limpido corso,
il mare sarebbe il tuo ovile
ma io vorrei berti d’un sorso;

portarti, innocenza, con me,
al suono del tuo campanello
mio piccolo, bianco fratello
che preghi il Signore col bee.

L’agnello, immagine cristiana per eccellenza (è la figura cristologica dell’agnus dei purificatore), diviene qui proprio un tenero agnellino che vaga da solo senza alcun timore (perché, ingenuo, non conosce i pericoli, e, nella sua ingenuità, è inattaccabile) per pianure e colline, facendole risuonare del campanello che porta al collo: all’inizio è una figurina da libro di prima elementare, da poesiola per bimbi (un po’ saltellante nei ritmici novenari del componimento), ma l’ultimo verso della terza strofa segnala già qualcosa in più, cioè il potere di riportare il mondo circostante a «incanti remoti» (gli incanti lontani dell’infanzia, infanzia dell’uomo e del mondo). Questo agnello invero è così contemplabile solo da una coscienza “adulta”, di chi conosce cioè la distanza, la separazione dall’“incanto”, la perdita; e proprio quella perdita vorrebbe colmare, bevendo alla fonte dell’innocenza, rappresentata dall’“agnello-fiocco di neve-acqua lustrale” (l’agnello ricorda infatti al  poeta «un poco di neve che dura», in attesa d’essere sciolta dal «sole d’aprile»). L’Autore esprime del resto a chiare lettere la propria aspirazione – «ma io vorrei berti d’un sorso» –, di intensità tanto acuta nel modulo desiderativo (sintatticamente quasi a sé: «portarti, innocenza, con me») da risultare persino dolorosa; pur placandosi nell’explicit degli ultimi tre versi, col ritorno all’agnello che rivolge il proprio belato/preghiera al Signore. Nella raccolta Il fuoco dei poveri (1939) c’è una poesia, Scuola di campagna, straordinaria per equilibrio fra candore infantile e adulta consapevolezza del tempo trascorso, struggente e delicata, malinconica e piena d’amore, certamente fra le cose migliori di Pezzani. Si tratta di sette quartine di semplicissimi novenari pascoliani, in rima ora incrociata ora alterna, col vezzo soltanto di qualche minimo e raro enjambement; quartine che racchiudono interminabili profondità di nostalgia in un dettato limpido, semplicissimo ma non “pargoleggiante”:

Scuola di campagna

È fuori dal borgo due passi
di là del più fresco ruscello
recinta di muro e cancello
la piccola scuola di sassi.

Agnella staccata dal branco
col suono che al collo le han messo
richiama ogni bimbo al suo banco
nell’aula che odora di gesso.

C’è ancora la vecchia lavagna
con su l’alfabeto mal fatto:
lo scrisse un bambino distratto
dal verde di quella campagna.

E lei, che mi vide a sei anni,
c’è ancora. La voce un po’ fioca,
vestita d’identici panni,
la vecchia signora che gioca.

C’è ancora il vasetto d’argilla
che m’ebbe suo buon giardiniere;
è verde, fiorito di lilla,
e un bimbo gli porta da bere.

Il tempo passò senza lima
su queste memorie. Ritorno
lo stesso bambino d’un giorno
sereno, nell’aula di prima.

E in punta di piedi, discreto,
nell’ultimo banco mi metto
e canto, nel dolce coretto
dei bimbi, l’antico alfabeto.

Il Poeta rivede con gli occhi della mente, ma quale viva immagine, la piccola scuola di campagna d’un tempo, appena fuori dall’abitato, di là da un ruscello di percepibile freschezza: implicitamente bianca, è come un’agnella (iterata figura dell’innocenza e purezza) che, separata dal resto del gregge, fa risuonare la propria campanella; così la scuoletta-agnella richiama i bimbi ai loro banchi. Dalla terza strofa il Poeta è come una presenza non vista, che spia dai vetri della sua vecchia scuoletta e rivede ogni cosa, come allora, immutata. Anche la maestra di allora, proprio lei, è (quasi) immutata: se ha «la voce un po’ fioca» è però «vestita d’identici panni» (la scuola elementare si  offre alla memoria come illeso eden infantile, ahimè perduto, di “gioco” spensierato). Il revenant considera che «il tempo passò senza lima / su queste memorie. Ritorno / lo stesso bambino d’un giorno / sereno nell’aula di prima» (e qui anche Gozzano un poco c’entra in quel “ritorno…” così sospeso sul vuoto della fine del verso). Nella vecchia scuola di campagna il tempo s’è come fermato, e il Poeta, scolaro d’allora (eh, per lui invece gli anni sono inesorabilmente, dolorosamente trascorsi!), non visto, può tornare per un momento bambino e, magia della poesia, può unirsi, seduto nell’ultimo banco, al «dolce coretto / dei bimbi» e cantare «l’antico alfabeto». Un gioiello, un vero gioiello, un sogno a occhi aperti in stato di grazia poetica assoluta (4).

Locali e forestieri: un melting pot

Nell’arco 1927-1945, le vicende culturali parmensi  ci presentano una commistione di letterati “locali” – a volte magari “in uscita”, più o meno precoce – e “forestieri acquisiti”, o anche solo “in transito” ma, almeno temporaneamente, ben inseriti nella vita cittadina; che creano nell’insieme, molteplice e variabile, il vivo tessuto culturale della città e i suoi collegamenti col resto della nazione.

Bruno Barilli (Fano, 1880 – Roma, 1952), musicista e scrittore, pur nato fuori dalle nostre mura, appartiene a un’artistica famiglia decisamente parmigiana  (era figlio di Cecrope, il capostipite, illustre pittore fin de siècle), anche se poi fu sempre un girovago: i suoi studi musicali, cominciati a Parma, erano proseguiti a Monaco di Baviera; e poi fu sempre tra Parigi, Londra, Roma… Dopo Delirama (1924; poi 1944) e Il sorcio nel violino (1926), pubblicò Il paese del melodramma (Carabba, Lanciano, 1930), il suo libro più famoso, di non facile definizione quanto a genere: breve, ricco e stravagante, è contemporaneamente una raccolta di saggi di critica musicale, un affondo meditato e competente sullo stato dell’arte del teatro lirico italiano sul finire degli anni Venti, un bilancio e una sistemazione dell’opera e dell’eredità di Giuseppe Verdi; e infine si presenta con le caratteristiche della migliore e meno stilizzata prosa d’arte dell’epoca, «un poemetto critico» (come lo ha definito Gustavo Marchesi). La scrittura di Barilli, musicale e sorprendente («grandine e spruzzaglia di rubini e diamanti» la definì Cecchi), ma anche perentoria nei suoi giudizi “sicuri e precisi”, «appare percorsa da certe attitudini dell’io e sprezzature e inquietudini di stile che richiamerebbero semmai certi vociani, ma con una levità nuova, che non conosce mutrie problematiche» (Briganti). In particolare la scrittura del Paese del melodramma, pur collegata (debolmente) al calligrafismo rondista, possiede una sorta di sovrappiù espressionista che rende lo stile di questo libretto tutt’uno con il suo oggetto: il territorio di Parma e del suo contado, la sua vocazione teatrale, la sua indole ribelle e anarchica; ma anche il crepuscolo della lirica italiana, in quegli anni almeno parzialmente orfana del magistero del più straordinario dei suoi padri: Verdi, appunto. Barilli, poi, sa aprire – e per questa dote può aver infl uito la tradizione pittorica di famiglia – perfetti squarci narrativi, brevi pezzi o rapidi inserti che possiedono  la forza icastica della migliore novellistica.

Ugo Betti (Camerino, 1892 – Roma, 1953), che certo non potremmo definire scrittore parmense, visse però a Parma trent’anni – dal 1901 al 1930 – densi di eventi storici e privati, importanti per la sua formazione umana e culturale: la scuola e l’università, un intermezzo bellico da volontario e il conseguente internamento in un lager (dove strinse amicizia con Bonaventura Tecchi e Carlo Emilio Gadda), l’inizio dell’attività professionale da giudice (tra Bedonia e Parma)… Poi, nel 1930, Betti si trasferì a Roma. Ma, intanto, il suo debutto letterario era stato, in poesia, quando ancora si trovava a Parma (5), con la raccolta Il re pensieroso (1922); cui erano seguite Canzonette-La Morte (1932) e Uomo e donna (1937). Nei suoi testi si coglie soprattutto il senso di sradicamento dell’uomo capitato, fuori da ogni alveo protettivo, in una vita incomprensibile, a cui si sente impreparato e senza sostegno. Anche narratore, di Betti ricordiamo qui almeno le due prime raccolte di novelle: Caino (1928) e Le case (1933). Naturalmente Ugo Betti deve la sua fama alla drammaturgia: dalla seconda metà degli anni Venti il teatro divenne infatti sempre più chiaramente la sua attività principale, quella in cui maturò la sua fama nazionale (cresciuta soprattutto negli anni Trenta: si pensi a Frana allo Scalo Nord, del 1936) e internazionale (con Corruzione al Palazzo di Giustizia del ’49). Citiamo, degli anni parmensi, i suoi primi testi teatrali, La padrona (1926), La donna sullo scudo (1927, scritta insieme a Osvaldo Gibertini), e il ben noto La casa sull’acqua (1929), la cui prima nazionale fu al Teatro Ferrario di Salsomaggiore. E, tanto per ribadire un’altra successiva intersezione parmigiana, ricordiamo che la prima nazionale di I nostri sogni (con Rina Morelli e il grande attore parmense Memo Benassi) fu, nel 1937, al Teatro Regio di Parma.

Anton Germano Rossi (San Secondo Parmense 1899 – Roma 1948), umorista, giornalista e scrittore, fu redattore del «Marc’Aurelio», condirettore del «Travaso», redattore di «Ecco», collaboratore della «Stampa», fondatore del «Giornale delle Meraviglie ». Nel 1934 pubblicò, presso Corbaccio, una scelta del meglio della sua produzione di narrativa breve apparsa via via su giornali umoristici (come i primi due sopra citati), col titolo di Porco qui! Porco là: si tratta di una raccolta di novelle “anticonformiste”, anzi – come specifica il frontespizio editoriale – di “contronovelle”, che presentano, a partire da normali contesti quotidiani, personaggi bizzarri e sviluppi comici e paradossali, e che, nell’insieme, creano una sorta di mondo “contrario”, antiperbenistico e antiborghese, con guizzi stilistico-linguistici sorprendenti (cui forse non è estraneo certo futurismo in prosa di quegli anni) e surreali. Il libro ebbe fortuna, e varie ristampe ed edizioni (6).

Francesco Squarcia (Berceto, 1901 – Parma, 1970) è esempio di massima “stanzialità”: trasferitosi nel 1912 dalla natia Berceto a Parma (grazie a una borsa di studio per il Convitto “Maria Luigia”), a Parma condusse l’intera esistenza, o quasi. Conseguita nel 1920 la maturità classica e vinta una borsa per la Scuola Normale di Pisa, si laureò in Lettere con Attilio Momigliano. Dopo due anni di insegnamento a Bolzano, tornò nel 1930 a Parma, al suo “Maria Luigia”, dove insegnò italiano e latino fino alla fine, cioè fino al ’65. Fu un probo uomo di scuola e di studio, ma fu anche un critico attento agli sviluppi della letteratura, anche in rapporto coi cambiamenti della società, alieno comunque da compromissioni politiche e schivo delle mode letterarie. Si sa che, esperto in particolare della letteratura ottocentesca, pubblicò fra l’altro un ancor oggi apprezzabilissimo volumetto sugli Scrittori romantici (Parma, 1952); è meno noto forse che la sua attività, inserita costantemente nelle varie imprese culturali della città, fu largamente e proficuamente spesa anche quale critico letterario “sulla battuta”, spesso – con grande acume – sulla letteratura del Novecento, in varie riviste e periodici (locali e nazionali) come, fino al ’45, «Il Quadrello» (1938-39), di cui fu co-fondatore, «L’Orto» (1939) e «Primato» (1941-42); poi, dopo la guerra, «La Fiera Letteraria», «Aurea Parma» (di cui fu anche direttore), «L’Illustrazione Italiana», «Il Raccoglitore» (7), «Paragone» e «Palatina».

Cesare Zavattini (Luzzara, Reggio Emilia, 1902 – Roma 1989), dopo gli studi medio-superiori compiuti nella laziale Alatri, tornò a diciannove anni in Emilia: iscrittosi alla facoltà di Legge dell’Università di Parma, proprio nella nostra città prese a coltivare un’incontenibile e multiforme passione per la scrittura, a partire dal giornalismo. Dopo il suo primo articolo (1926) per la «Gazzetta di Parma» (1926), nel ’28 intraprese decisamente l’attività giornalistica (che proseguì più avanti trasferendosi a Milano). Nel ’31 ebbe inizio, con Parliamo tanto di me, anche la sua carriera di narratore, ribadita, nel giro di una dozzina d’anni, da I poveri sono matti (1937), Io sono il diavolo (1941), Totò il buono (1943). Data al 1935 (con la sceneggiatura di Darò un milione, per la regia di Mario Camerini) l’inizio della sua feconda attività di sceneggiatore (con più di ottanta titoli). Particolarmente felice l’incontro con Vittorio De Sica, col quale collaborò, fino al ’45, per Teresa Venerdì (1941), I bambini ci guardano (1943), La porta del cielo (1944); vennero poi, sempre con De Sica, capolavori indiscussi come Sciuscià (1946), Ladri di biciclette (1948), Miracolo a Milano (1950; tratto da Totò il buono), Umberto D. (1952)… Zavattini (detto “Za”) fu dunque un protagonista assoluto del neorealismo, in particolare del neorealismo cinematografico, anche se la sua personalità sfugge a definizioni assolute. Il punto di vista col quale egli guarda alla realtà è umoristico e satirico, con frequenti escursioni fantastiche, e sempre anticonvenzionale: il piglio è perlopiù fortemente critico nei confronti della società, ritratta con oloroso (ma talora anche utopisticamente gioioso) enso di pietà. La sua vena di sperimentatore, di forme  di creatività linguistica, gli fece attraversare in rima linea persino gli anni Sessanta, corteggiato alla neoavanguardia.

Pietro Bianchi (Fontanelle di Roccabianca, Parma 909 – Baiso, Reggio Emilia 1976), per dedicarsi recocemente alla propria vocazione letteraria e iornalistica, trascinò gli studi, liceali e universitari, aureandosi in filosofia solo all’età di 31 anni, quando pure insegnava da tempo nelle scuole di Parma. Grazie a Cesare Zavattini, caporedattore della «Gazzetta di Parma», cominciò a collaborarvi, come critico cinematografico e redattore della terza pagina, nel 1928, cioè appena diciannovenne: tale collaborazione, interrotta di lì a poco (in coincidenza con la fascistizzazione e trasformazione del quotidiano parmense in «Corriere Emiliano») riprese nel 1934. Nel 1935 Bianchi pubblicò il suo primo libro: La poesia di Attilio Bertolucci. Nel 1937 fondò il primo cine-club di Parma (Cine-Guf). Sul «Corriere Emiliano», oltre alle recensioni cinematografiche, tenne per un certo periodo (dal 1937 al 1940), una rubrica settimanale, firmata “Il portoghese discreto”. Nel 1938 promosse, all’interno del medesimo «Corriere Emiliano» il foglio letterario quindicinale «Il Quadrello». Nel ’39 divenne critico cinematografico della rivista satirica milanese «Bertoldo» (con lo pseudonimo di “Volpone”). Nel 1946 si trasferì a Milano, dove – tra giornalismo, editoria e critica cinematografica – la sua fama e il suo prestigio crebbero a livello nazionale e oltre (8). Di estrazione letteraria e classica, Pietro Bianchi (per gli amici “Pietrino”) fu, proprio anche in campo cinematografico, critico colto e raffinato, contro l’estetica delle major americane e quella dei telefoni bianchi imposta, tra le due guerre, dal regime fascista. Precocemente e decisamente convinto dello statuto artistico del cinema, riservò sempre alla “decima musa” un rigoroso impegno di esegesi e di studio, dedicando alla cinematografia le più assidue e acute attenzioni, a partire da un particolare interesse per lo specifico rapporto filmico tra realtà e invenzione.

Oreste Macrì (Maglie, 1913 – Firenze, 1998), originario della provincia di Lecce, durante gli anni Trenta vive a Firenze, dove studia (laureandosi con una tesi sulla poetica di Vico) e dove diviene parte attiva dell’ampia schiera ermetica che anima il capoluogo toscano. Proprio a Firenze, su consiglio di Mario Luzi e Giacinto Spagnoletti – avendo già preso frattanto a collaborare a distanza con Attilio Bertolucci per la collana “La Fenice” di Guanda –, matura la decisione di chiedere il trasferimento a Parma; dove giunge nel 1942 per insegnare Lettere alla scuola media “Fra’ Salimbene”. Gli anni parmensi – Macrì rimarrà nella nostra città fino al 1952 – sono tra i suoi più fecondi e interessanti; frequenta assiduamente il nutrito gruppo di intellettuali parmigiani, immergendosi, come lui stesso ricorda, nel
«sostrato sociale-letterario-sentimentale di un’eredità idillico-elegiaca, vagamente impressionista ed epicurea » che per lui rappresentava in un certo senso la cifra dell’identità culturale di Parma. La sua «partecipazione alla vita parmense» – scrive ancora – «fu completa in ogni aspetto culturale e sociale» (9): collabora, si può dire, a tutte le esperienze editoriali di quel torno d’anni («La Fiamma», «L’Eco del lavoro», «Parmarossa», «Vento del Nord», «L’Idea», «Il Contemporaneo», «La critica cinematografica», «Il Raccoglitore» e ovviamente «La Gazzetta di Parma» e «Aurea Parma»); è, insieme a Bertolucci e Spagnoletti, tra i principali consulenti editoriali di Guanda; promuove una serie di incontri presso il Circolo di lettura nei quali ospita Saba, Ungaretti, Montale, 130 Paolo Briganti Cecchi, De Robertis, Carlo Bo, Luzi, Bigongiari e altri ancora. Nel 1941 dà alle stampe l’importante volume di saggi critici Esemplari del sentimento poetico contemporaneo. Durante la guerra ripara temporaneamente, sfollato, a Scurano e a San Michele Tiorre; dopodiché prenderà parte alla vita politica cittadina nelle file del partito socialista, insieme a Ferdinando Bernini e a Emilio Taverna. Dopo il ’52 Macrì lascerà poi Parma, per tornare nuovamente a Firenze, dal 1959 docente universitario di letteratura spagnola presso il Magistero fiorentino; e pubblicherà molti importanti lavori, italianistici (come Caratteri e figure della poesia italiana contemporanea) e ispanistici (da ricordare almeno la silloge Canti gitani andalusi di Federico García Lorca e Poesia spagnola del ’900, entrambi per Guanda).

Altri parmensi 

Naturalmente il tessuto culturale della città si nutriva in quegli anni anche della presenza attiva di altri, studiosi, eruditi, scrittori, alcuni dei quali di primo piano. È il caso, evidentissimo, dello storico, filologo e politico Ferdinando Bernini (San Secondo Parmense, 1891 – Bologna, 1954) che, insegnante di greco e latino presso il Romagnosi di Parma, durante il fascismo s’era dovuto ritirare dalla vita politica dedicandosi quasi esclusivamente agli studi storici e filologici (sua un’edizione critica della Cronica di Fra’ Salimbene del 1942); ma nel ’43 rappresentò il PSI nel Comitato d’azione antifascista di Parma: eletto nel ’46 all’Assemblea Costituente, fu chiamato a far parte del terzo governo De Gasperi con la carica di sottosegretario alla Pubblica istruzione. Altra figura degna di nota fu certamente Vittorio Enzo Alfieri (Parma, 1906 – Pejo, Trento, 1997): figlio di un fabbroferraio, fu studioso di filosofia, crociano, liberale; arrestato due volte dal regime fascista, gli venne tolta la cattedra liceale e sopravvisse dando lezioni private. Partecipò alla Resistenza con il Gruppo Franchi di Edgardo Sogno, di ispirazione liberale. Assai precoce, si dedicò fin da “ragazzo” alla letteratura, creativa (poesia) e critica: ricordiamo il suo libello controcorrente Il futurismo è morto (Parma, Tipografia Invalidi, 1923), pubblicato quando aveva appena diciassette anni. Affascinato poi dal pensiero di Croce, si occupò prevalentemente di filosofia, con particolare riguardo per la filosofia antica.

Alla categoria dei poeti-avvocati appartiene (anche se, durante il fascismo, fu espulso dall’albo per manifesta avversione al regime; e fu poi partigiano, tra i primi) Lanfranco Fava (San Pancrazio Parmense, 1911 – Parma, 1979), con due interessanti raccolte in quegli anni: Canti all’orizzonte (Parma, 1940) e Mondiglia (Parma, Fresching, 1943). Non aveva potuto invece portare a termine gli studi di legge (anzitutto per le difficoltà economiche della famiglia) Renzo Ildebrando Bocchi (Parma, 1913 – Flossenburg, 1944) che, pur volitivamente inclinato alla
dimensione poetica (incoraggiato in ciò da Pezzani), non ebbe modo di raggiungere – se non sporadicamente – risultati significativi nelle sue due raccolte, La fiamma del cuore (Parma, La Bodoniana, 1938) e Il pane del perdono (Milano, “Le Muse”, 1940): la sua precisa scelta di campo antifascista e antinazista (che fanno di lui una figura esemplare) lo condusse a lasciare la vita, a soli trentun anni, nel campo di sterminio di Flossemburg in Germania (10). Ancor più breve la vita del promettente poeta Roberto Capra (Pellegrino Parmense, 1928 – Parma, 1948), stroncata a vent’anni da un tragico incidente di montagna: i suoi precoci ma già significativi versi giovanili (che piacquero, fra gli altri, ad Attilio Bertolucci), furono pubblicati dagli amici, sùbito dopo la sua morte, col semplice titolo di Poesie (Parma, 1948).

Quanto alle scrittrici del periodo, vale la pena di ricordare: Angela Maria Aimi (Parma, 1902-1954) autrice del romanzo Colei che uccise il sogno (Bologna, 1935) e della raccolta poetica Melodie di foglie morte (Parma, Tip. Bodoniana, 1941); e Liana Croci Calza (Borgo San Donnino [l’odierna Fidenza], 1908 – Salsomaggiore Terme, 1998) autrice della raccolta Le canzoni di Nigritella (Milano, La Prora, 1939).

Solo per scrupolo di completezza accenniamo appena agli esili esordi “in lingua” (11), di quell’Alfredo Zerbini (Parma, 1895-1955) che invece fornirà poi, ma solo nell’ultimo decennio della sua vita, notevolissime prove poetiche in dialetto, tanto da divenire “l’altro” nome di prestigio (a fianco di Pezzani) nella poesia dialettale di Parma. E infine, solo di scorcio – per motivi strettamente cronologici, essendo i loro esordi proprio al limite conclusivo del periodo qui in esame – nominiamo appena tre scrittori la cui attività troverà il vero sviluppo dopo la Seconda Guerra Mondiale: Giovannino Guareschi (Fontanelle di Roccabianca, 1908 – Cervia, 1968); Adolfo Jenni (Modena, 1911 – Muri, Berna, 1997); e Giuseppe Tonna (Gramignazzo di Sissa, 1920 – Brescia, 1979).

Imprese culturali: quattro segnali

Letteratura e quotidiani

Un precoce e felice esperimento letterario entro il quotidiano fu, nello scorcio finale degli anni Trenta, la creazione di una pagina quindicinale entro la «Gazzetta di Parma», o meglio entro il «Corriere Emiliano» (come temporaneamente s’era dovuta ridenominare, fascistizzandosi, la gloriosa testata di Parma): infatti tra il 1937 e il 1939, la comune “terza pagina”, o piuttosto una parte di essa, si trasformò quindicinalmente in uno spazio separato dal resto della pagina e del quotidiano, prima con la sottotestata «Vita letteraria e degli scrittori» (dal 13 novembre 1937 al 30 ottobre 1938), poi con quella di «Il Quadrello» (dal 12 novembre 1938 al 19 agosto 1939). In tale spazio, affidato a una redazione a sé, le collaborazioni più interessanti furono, non solo quelle di alcuni “locali” di prestigio, come Pietro Bianchi e Francesco Squarcia, ma anche quelle di alcuni “forestieri” – fortemente coinvolti però nell’iniziativa –, come Aldo Borlenghi (probabile “guida” dell’iniziativa) (12), Enzo Paci, Bruno Romani, approdati a Parma in quegli anni per l’insegnamento scolastico: tutte buone firme, evidentemente, allora sostanzialmente alle prime armi, se non proprio agli esordi. Senza contare poi presenze, sporadiche ma di rilievo, come quelle di Ugo Betti, Attilio Bertolucci, Giuseppe Raimondi… Pur dietro l’inevitabile pedaggio (conditio sine qua non) di dichiarazioni ufficiali per la «creazione dell’arte nel Secolo fascista», i diversi redattori cercarono di fare via via, autonomamente e dignitosamente, il punto sull’attività letteraria e sulla cultura del tempo (13).

In un momento successivo – frattanto la testata del quotidiano è tornata a titolarsi «Gazzetta di Parma » – viene ripresa l’iniziativa di una pagina speciale letteraria, sotto la primitiva denominazione (pur sintetizzata) di «La vita letteraria», che durò, «con alterne vicende», dal 18 novembre 1941 ai primi mesi del 1943: «[…] Trova spazio sulla pagina letteraria della “Gazzetta” proprio l’espressione di quella “resistenza culturale”, che gli intellettuali italiani oppongono, a volte più per gusto o eticità che per una cosciente posizione ideologico-politica, al regime» (14).

La casa editrice Guanda

Il trasferimento di Ugo Guandalini (Modena, 1905 – Parma, 1971) – docente di Mineralogia presso l’Ateneo parmense – e della sua casa editrice (Guanda) da Modena a Parma nel 1938 non muta sostanzialmente l’impostazione originale e, per l’epoca, «se non eversiva perlomeno di resistenza» (Davide Barilli) della sua linea e del suo catalogo. La coerenza di Guandalini emerge con chiarezza dai titoli pubblicati sul finire degli anni Trenta e nei primi anni Quaranta, improntati all’anticonformismo e alle scelte appartate, orientati in primo luogo lungo le direttrici della filosofia, della religione e della poesia. La casa editrice pubblica La barca, esordio di Mario Luzi, e prosegue poi connotando senza ambiguità il suo percorso con testi di Pietro Zanfrognini, Ernesto Buonaiuti, Giovanni Boine, Adriano Tilgher, Giuseppe Rensi, Jacques Maritain, Francesco Jovine, Giuseppe Antonio Borgese (Atlante americano). Ma è con la collana della «Fenice» – nata nel 1939 e diretta da Attilio Bertolucci – che Guanda allarga lo sguardo alle più affascinanti avanguardie poetiche di oltre confine sfidando le ristrettezze della strapaesana autarchia culturale italiana: García Lorca, Yeats, Auden, Ezra Pound, Donne, Hopkins, Eliot, Jiménez. In questo periodo cominciano a collaborare con Guandalini, oltre a Bertolucci (che si occupava dell’area inglese), anche Carlo Bo e Oreste Macrì (rispettivamente per quella francese e quella spagnola) e Giacinto Spagnoletti; così che, in pochi anni, la Guanda, ormai consolidatasi in Parma come parte essenziale del tessuto culturale e civile cittadino, arriva a rappresentare «una parte di primaria importanza nella storia della nostra cultura fra il ’35 e il ’45, vale a dire in un tempo in cui si maturava il volto della nuova Italia» (Carlo Bo).

L’antologia Pianura

Nel 1941 la tipografia Fresching di Parma dà alle stampe una preziosa antologia di giovani autori 132 Paolo Briganti locali, alcuni dei quali lasceranno un’impronta profonda nella cultura cittadina (15). Il volumetto azzurrino portava il titolo di Pianura e raccoglieva alcuni esperimenti lirici di Mario Colombi Guidotti – in un suo interessante esordio poetico «angoloso e irritante », scrive Oreste Macrì in Caratteri e figure della poesia italiana contemporanea (1956), proprio perché tra i cinque era l’unico che «tentava di evadere dalle balsamiche rive di quella elegiaca monotonia» –, di Gian Carlo Artoni e di Guglielmo Ambrosoli; e alcune prose di Lorenzo (Renzo) Bocchi e di Pietro Galli, il cui brano così iniziava: «Il ponte sul torrente; le case in fila alte e basse, giù nell’acqua con le loro innumerevoli finestre piccole e nere. E l’acqua contro i piloni, in rivolta; e l’immobilità dei sassi bianchi alle rive. I campanili bassi, in gruppo, più in fondo. Cose straordinarie e purissime. L’odore della mia città in primavera. Parma. Verde a sera, piena di me fino al cielo, nelle pietre, nell’acqua, nelle arcate».

La rivista «La Fiamma»

Uscita tra il 1941 e il 1943, fu ufficialmente il «Foglio d’ordini della Federazione dei Fasci di combattimento di Parma» (direttore Alessandro Minardi); e tuttavia, «pur costretta nel soffocante ruolo di organo ufficiale […] riconduce a struttura critica esperienze, ansie e slanci erratici emergenti da territori della cultura, dentro e fuori le mura, non sempre e non del tutto coerenti ai segni della politica» (16), così che, specie in virtù delle sue pagine dedicate alla cultura, come per i casi del «Bargello » fiorentino o dell’«Architrave» bolognese, finisce per diventare una sorta di operazione di resistenza interna al regime sub specie letteraria. Tra i suoi collaboratori – in varia misura – si segnalano, infatti, Pietro Bianchi, Lorenzo Bocchi, Attilio Bertolucci, Antonio Marchi, Oreste Macrì, Francesco Squarcia, Pietro Viola, Mario Colombi Guidotti, Gian Carlo Artoni, Italo Petrolini, Carlo Mattioli, Aldo Borlenghi e Vincenzo Cuccurullo; una prova inconfutabile, ad esempio, della divaricazione rispetto alle indicazioni culturali del fascismo è l’attenzione dedicata alla cultura spagnola di opposizione al franchismo (García Lorca, Antonio Machado, e Jorge Guillén tradotto da Montale).

Attilio Bertolucci

E chiudiamo – come meglio non si potrebbe – con Attilio Bertolucci (Parma, 1911 – Roma, 2000), cioè con la figura più importante delle lettere parmensi (non solo dunque nell’arco temporale qui considerato, ma entro tutto il Novecento). Tratti biografici fino al ’45: Attilio appartiene a famiglia della media borghesia agraria (appenninica per parte di padre, padano-piacentina per parte di madre), che si trasferisce già nel 1912 ad Antognano, in un podere a ridosso della città; poi, nel 1921, in un altro podere, sempre vicino a Parma, in località Baccanelli. Bertolucci frequenta parte delle scuole elementari e delle medie inferiori (allora “ginnasio”) al “Maria Luigia”, dove stringe amicizia con Cesare Zavattini, giovane supplente, e con Pietro Bianchi, che lo “inizia” al nuovo linguaggio del cinema. Nel ’28 prende a collaborare alla «Gazzetta di Parma», di cui allora Zavattini è redattore capo. Compiuti gli studi classici al Romagnosi (avendo come professore Gino Saviotti), si iscrive nel ’31 alla facoltà di Giurisprudenza di Parma, che segue con poco slancio, per passare nel ’35 alla facoltà di Lettere a Bologna, attirato dall’insegnamento di Roberto Longhi. Qui fa altre significative amicizie, fra l’altro con Giorgio Bassani. Si laurea nel 1938 con una tesi su Mario Pratesi. Nello stesso anno si sposa con Ninetta Giovanardi, sua compagna di classe al liceo, e si dà all’insegnamento, di italiano e storia dell’arte. A Parma – che fra gli anni Trenta e i Quaranta è divenuta un vivace punto d’incontro di letterati e uomini di cultura – intreccia via via relazioni feconde con Ugo Guandalini (l’editore “Guanda”), Aldo Borlenghi, Enzo Paci, Vittorio Sereni, Mario Luzi, Oreste Macrì, Giacinto Spagnoletti (e con Carlo
Bo, Giancarlo Vigorelli, Leone Traverso, Giuseppe De Robertis… di passaggio spesso, questi, dai caffè di Parma). Dal 1939 fonda e dirige, per Guanda, la collezione di poeti stranieri «La Fenice». Collabora frattanto a varie riviste («Letteratura», «Circoli», «Corrente»). Nel 1941 nasce il suo primogenito, Bernardo. Chiamato alle armi nel ’42, ma congedato quasi subito per le sue «extrasistoli», dopo l’8 settembre del 1943 si rifugia con la famigliola nell’avita casa dei Bertolucci a Casarola, sull’Appennino parmense; dove poi scampa avventurosamente al rastrellamento tedesco che il 2 luglio del 1944 miete vittime anche fra i suoi parenti. Attilio debutta quale autore nel 1929, a diciott’anni non ancora compiuti, con la plaquette di poesie Sirio; e cinque anni dopo (1934) pubblica la già fondamentale raccolta Fuochi in novembre (17).  Recensendo questa seconda uscita, Eugenio Montale avanzava l’ipotesi che forse proprio a Bertolucci «fosse riservato, con altri, di disincagliare certa lirica recente dalla fissazione di pochi schemi o poche parole, magari rifacendosi un po’ addietro per poter poi spiccare un salto in avanti» (18). La “fissazione” cui Montale faceva riferimento era quella sorta di liricizzazione assoluta – quasi decontestualizzata dal
flusso esistenziale – che, in quegli anni Trenta, aveva quali interpreti Quasimodo, Gatto, Parronchi, Sinisgalli, Luzi, tutti sotto la fortunata denominazione di Ermetismo. Montale, che ne avvertiva già l’irrigidimento in certo qual modo manieristico, ipotizzavadunque, con sorprendente anticipo, l’avvento rigenerante di altri poeti, magari apparentemente attardati, portatori invece di rinnovamento: tra questi dunque, primo o tra i primi, Bertolucci. Ciò che caratterizzava nettamente lo stile di Attilio – di contro all’allusività universalizzante e alle algide e depuratissime codificazioni elitarie degli ermetici – era il linguaggio comunicativo, “semplificato”, “realistico”, con precisi referenti esistenziali e spazio-temporali. Pur con qualche approssimazione e qualche minimo pedaggio pagato alla linea “pura” di quegli anni, il piglio bertolucciano era chiaro del resto fin dal citato precoce debutto di Sirio. Si prenda, esemplarmente, Vento, che, per cronologia compositiva sarebbe in assoluto il primo, risalendo – pare – addirittura al 1925, quando cioè il Nostro non era che un giovinetto a malapena quattordicenne:

Vento

Come un lupo è il vento
Che cala dai monti al piano,
Corica nei campi il grano
Ovunque passa è sgomento.

Fischia nei mattini chiari
Illuminando case e orizzonti,
Sconvolge l’acqua nelle fonti
Caccia gli uomini ai ripari.

Poi, stanco s’addormenta e uno stupore
Prende le cose, come dopo l’amore.

L’anticipo del secondo termine della comparazione “animale” («Come un lupo») fa irrompere sùbito, ad apertura, la ferina furia del vento; seguono poi alcuni scorci, di natura e di uomini, sconvolti, in una veloce successione di brevi versi liberi, ritmicamente “rapinosi”; fino al distico di chiusura, in cui il vento, improvvisamente «s’addormenta», placandosi prima in un endecasillabo lentissimo, poi in un verso ipermetro di ascendenza “barbarica” (un quinario più un settenario); e, si badi, il vento s’addormenta “come dopo l’amore”, mentre attorno – stupefazione appagata e attonita proiettata sugli oggetti – “uno stupore prende le cose”. La comparazione erotica dell’ultimo verso potrebbe far dubitare che i pretesi tredici/quattordici anni d’età dell’Autore appartengano a una sorta di auto-mitografia personale, chissà…
Comunque sia, resta, inequivocabile, la data di stampa del ’29 a fermare quantomeno ai diciott’anni l’ante quem elaborativo di tutta la raccolta; sicché lo stupore più grande resta comunque il nostro, di lettori, di fronte a tale già compiuta finezza e maestria.

Ed ecco ora il testo più famoso di Fuochi in novembre (1934), Ricordo di fanciullezza:

Ricordo di fanciullezza

Le gaggìe della mia fanciullezza
dalle fresche foglie che suonano in bocca…
Si cammina per il Cinghio asciutto,
qualche ramo più lungo ci accarezza
la faccia fervida, e allora, scostando
il ramo dolce e fastidioso, per inconscia vendetta
si spoglia di una manata di tenere foglie.
Se ne sceglie una, si pone lieve
sulle labbra e si suona camminando,
dimentichi dei compagni.
Passano libellule, s’odono le trebbiatrici lontane,
si vive come in un caldo sogno.
Quando più la cicala non s’ode cantare,
e le prime ombre e il silenzio della sera ci colgono,
quasi all’improvviso, una smania prende le gambe
e si corre sino a perdere il fiato,
nella fresca sera, paurosi e felici.

In questo componimento si riscontra già, con evidenza, quella che poi sarebbe divenuta sempre più chiaramente, in Bertolucci, l’inconfondibile cadenza narrativa, e che allora si manifestava quale peculiare cifra oppositiva – come s’è anticipato – rispetto alle dominanti rarefazioni liriche novecentesche. E vi compaiono già immagini e temi fondativi della memoria poetica bertolucciana, come le “gaggìe”, ricorrente e simbolica “pianta-guida” di Bertolucci, qui, in avvio, con funzione di madeleine per lo scatto del ricordo; o come il “Cinghio” (piccolo corso d’acqua che confl uisce nel torrente Parma alla periferia sud-occidentale della città) che scorreva sul confine della proprietà dei Bertolucci ad Antognano, sfondo di paesaggio consueto e via via riaffiorante, quasi miticamente, negli anni. Si possono udire, disseminati, echi dannunziani rimodulati: come nella serie “fresche foglie” “tenere foglie” “silenzio della sera” “fresca sera”, che rammenta l’attacco della Sera fiesolana (“Fresche le mie parole nella sera…”); o nelle vibrazioni di lontananza di “S’odono le trebbiatrici lontane” e “la cicala non s’ode cantare”, che attivano reminiscenze dalla Pioggia nel pineto. Infine si possono cogliere due dei primi, poi sempre numerosi, ossimori bertolucciani – la “vocazione ossimorica” spesso notata dalla critica – nel “ramo dolce e fastidioso” (v. 6) e nel “paurosi e felici” proprio in chiusura. I versi liberi di cui è composto – d’ampia escursione metrica negli estremi (dal minimo di otto sillabe del v. 10 a ipermetrie vistose) – paiono in più luoghi,  soprattutto all’inizio, corteggiare l’endecasillabo, ancandolo ora per difetto ora per eccesso, e “centrandolo” olo qua e là (vv. 4 e 5, 9, 16): ciò produce, ell’insieme, l’effetto diffuso di cadenza prosastica, a intessuta di emergenti movimenti ritmici. Due sole le rime (vv. 1:4; 5:9), ma varie le assonanze e consonanze (fanciullezza, accarezza : vendetta; compagni : sogno; lontane : cantare : gambe), e una paronomasia fra inizio e fine del medesimo verso (spoglia: foglie), ulteriormente ribadita all’interno del verso successivo (sceglie). Nei primi sette versi si produce una sorta di continuità del raddoppiamento consonantico in fine di verso (-ezza, -occa, -utto, -ezza, -ando, -etta, -oglie) che, ripercuotendosi ancora in vari versi seguenti (-ando, -agni, -ogno, -olgono, -ambe), è avvertibile come generico ma efficiente ricorso fonico.

Nel 1951 esce il terzo libro di Bertolucci, La capanna indiana (19), che raccoglie fra l’altro, distinte e cronologicamente disposte, anche un’ampia scelta da Sirio (20) e, per intero, la raccolta Fuochi in novembre. La parte del tutto nuova è costituita, oltre che dal poemetto eponimo, dalla cospicua sezione Lettera da casa, con testi composti fra il ’35 e il ’50. Tra questi scegliamo uno dei testi più brevi, At home, anticipato in rivista nel 1945 (21):

At home

Il sole lentamente si sposta
sulla nostra vita, sulla paziente
storia dei giorni che un mite
calore accende, d’affetti e di memorie.

A quest’ora meridiana
lo spaniel invecchia sul mattone
tiepido, il tuo cappello di paglia
s’allontana nell’ombra della casa.

Nelle due quartine, i versi – versi liberi – corteggiano variamente l’endecasillabo, ora per difetto ora per eccesso (fra le otto e le dodici sillabe), per centrarla forse solo nel secondo (22) e, certamente, nell’ultimo. Si noti l’assonanza baciata in clausola (paglia : casa). La casa è quella del podere di Baccanelli, frazione alle porte di Parma, dove i genitori di Bertolucci si erano trasferiti dal 1921. In At home lo scorrere lentissimo dei giorni, tema tipico della Lettera da casa, si connette – fra l’altro con rima interna (lentamente : paziente) – a quello della pazienza, ricorrente nell’intera sezione; pazienza alimentata dal riverbero di affetti pacati e di ricordi, come antidoto allo sgomento della fuga del tempo. Nell’illusione d’immobilità indotta dalla stasi meridiana (con echi plurimi, volendo, quantomeno fra Pascoli e D’annunzio) (23), il cane-controfigura trascorre indenne, vòlto alla vecchiaia, un’esistenza attutita: (24) l’ormai «mite / calore» del sole, della vita, è restituito, ancor più smorzato e protettivo, dal «mattone tiepido». Solo alla fine s’intravede un’immagine umana in movimento – un frammento di donna, per sineddoche («il tuo cappello ») – appena turbativa nel suo apparire/scomparire entro l’ombra della casa (che dovrebbe forse inquietare, se quell’allontanarsi-scomparire nell’ombra alludesse a un transito dalla luce-vita al buio-non-vita: ma che in fondo non appare che un’increspatura prospettica naturale nel quieto scivolamento di una sera dopo l’altra, con movenze oltretutto di una eleganza connaturata, quasi tranquillizzante…).

Nel ’45 Bertolucci torna a collaborare sistematicamente con la «Gazzetta di Parma», occupandosi soprattutto di cinema e arte; l’anno successivo riprende l’insegnamento (25). Ma la svolta vera per Attilio è un poco più avanti, nel ’51: è l’anno di pubblicazione – s’è detto – della Capanna indiana; ed è l’anno del suo trasferimento a Roma, che voleva anche dire la grande avventura “nazionale”. Da quel momento inizia un vero e proprio secondo tempo del nostro più grande poeta; che, ormai sotto altri climi, terrà comunque sempre un legame stretto con Parma, sia pur da lontano; e produrrà altre opere, fondamentali: su tutte, la raccolta Viaggio d’inverno (1971) e lo straordinario romanzo in versi La camera da letto (elaborato a partire dal 1956, e pubblicato negli anni Ottanta). Ma questa – come s’usa dire – è un’altra storia.

NOTE

1. Rifugiamo in nota, per economia di spazio, i tratti bio-bibliografici fondamentali che precedono l’arco temporale qui considerato: Renzo Pezzani, di umile estrazione (il padre, Secondo, era artigiano del ferro), era diventato maestro, riprendendo gli studi nel 1918 dopo essere stato, nel ’15, volontario degli Arditi; al primo entusiasmo patriottico era però presto subentrata una profonda crisi spirituale. Nel 1919 aveva aderito al socialismo e al sindacalismo di De Ambris. Avendo quindi, sul finire del 1919, aderito al fascismo, era stato addirittura tra gli organi dirigenti del Fascio di Parma (delegato anche, nel maggio 1920, al II Congresso dei Fasci di Milano): ne era uscito in coincidenza col “Natale di sangue” fiumano del dicembre 1920. L’abbandono, dopo l’iniziale militanza, gli suscitò, da allora, l’ostilità rancorosa dei fascisti parmensi. Sul piano letterario, dal ’20 al ’26 Pezzani aveva pubblicato tre raccolte poetiche in lingua: Ombre (1920), Artigli (1923) – entrambe con qualche minima ambizione futurista, più che altro di facciata – e La rondine sotto l’arco (1926). Frattanto aveva collaborato al periodico «La Difesa Artistica» (1921-23), che aveva anche diretto a partire dal 1922 (accogliendo nel ’23 la “sottotestata” «Rovente» – questa sì futurista – diretta dall’amico Piero Illari). Nel ’22 aveva anche fondato ETO, la prima delle sue case editrici. Aveva ripreso la collaborazione a testate di propaganda sindacale e politica (quali «Gioventù Sindacalista» e «L’Internazionale»); ma, deluso anche da tali esperienze, e ancora in crisi spirituale, aveva trovato infine conforto presso l’abate Caronti in San Giovanni Evangelista: ne era uscito – come ebbe a dire lui stesso – «con anima nuova e cattolica », e aveva fondato (1924) «La Grande Orma» («mensile di religione, lettere e arti») che uscì fino al 1925, quando, per vicende non del tutto chiare – forse anche in seguito ad accuse di omosessualità, vere o false che fossero, probabilmente mosse ad arte –, era stato costretto prima ad abbandonare l’insegnamento presso la scuola elementare Pietro Cocconi, poi, l’anno dopo, addirittura Parma, per trasferirsi a Castiglione Torinese, impiegandosi presso la casa editrice torinese SEI, e dando inizio nel contempo a varie collaborazioni giornalistiche. A Parma restò comunque sempre legato, con vivi contatti amicali e frequenti rientri (spesso in incognito, per le minacce ricevute) lasciando trapelare nelle proprie opere l’amore e la nostalgia per la città natale.

2. La sua poesia in dialetto meriterebbe certo una compiuta trattazione a sé, ma la nostra scelta è dettata, oltreché da necessità di sintesi, da una strategia di rivalutazione del versante “in italiano” di Pezzani, idea critica che andiamo perseguendo da qualche tempo. Sia detto poi per inciso, e solo per stabilire una precedenza: quella dialettale, contrariamente a quel che si potrebbe pensare, non è stata in Pezzani una vocazione primaria, visto che, quantomeno, si manifestò apertamente solo a partire dalla fine degli anni Trenta (e dietro il magistero “grafico-linguistico” di Jacopo Bocchialini). Tre le sue principali raccolte in dialetto: Bornisi (1939), Tarabacli (1943), Oc luster (1950). Naturalmente tralasciamo anche la sua (minore) produzione in prosa, che pure attende d’essere adeguatamente studiata.

3. Queste le edizioni di poesia in lingua nell’arco 1927-45: L’usignuolo nel claustro, Milano, Alpes, 1930; Angeli verdi, Torino, SEI, 1932; Sole solicello, Brescia, La Scuola, 1933; Belverde, Torino, SEI, 1935; Cantabile, Torino, Gambino, 1936; Musa festiva [pseud.: Fulvio Latino], Milano, Àncora, 1936; Il fuoco dei poveri, Brescia, La Scuola, 1939; Il cuore della casa, [versi e prose d’occasione (il risparmio) per bimbi], Cassa di Risparmio delle Provincie Lombarde, [1940]; La prigione illuminata, Torino, Il Verdone, 1943; Cuor di cristallo, fiaba lirica in un prologo e tre quadri di R.P. con commenti musicali (cori e danze) di Alberto Soresina [1942], Bergamo, edizioni Carrara, [s.d.].

4. Raccolte dopo il ’45: Angelo di fuoco, Torino, Edizioni Palatine, 1948; Boschetto (Poesie per ragazzi), Torino, Edizioni Palatine, 1948 (poi in Innocenza); Innocenza, Torino, SEI, 1950; Odor di cose buone, Torino, Paravia, 1950; Poesie a due voci (con Giuseppe Colli), Avezzano, Ceam, 1951; Bellissimi dolori, a cura di Ubaldo e Giovanna Ciabatti, edizione postuma, fuori commercio: Archivio Renzo Pezzani – Collefiorito – Castiglione Torinese, 1963. Nel ’46 Pezzani fondò le Edizioni Palatine, che però segnarono, nel ’50, il definitivo rovinoso tracollo economico di Pezzani. Sommerso dai debiti e ammalato, il Poeta morì nell’estate del 1951 per coma diabetico, quando, ormai ridotto in miseria e senza più casa, stava per trasferirsi presso il caritatevole parroco di Castiglione. I suoi resti furono traslati da Castiglione Torinese al cimitero della Villetta di Parma il 28 novembre 1953, con vasto concorso della cittadinanza parmigiana alla cerimonia.

5. Betti, negli anni di Parma, frequentava il gruppo degli intellettuali (in sospetto d’antifascismo) che bazzicavano il salotto letterario di Gino Saviotti. Saviotti, che insegnava allora al liceo Romagnosi, continuava a pubblicare (1923-26) la rivista «Pagine critiche», da lui fondata prima del suo trasferimento parmigiano. Frequentatori di casa Saviotti, luogo di incontro e redazione della rivista, erano, fra gli altri – oltre a Betti –, Enrico Bevilacqua, Emanuele Sella, Erberto Carboni, Giuseppe Mancini e Cesare Zavattini. Saviotti abbandonò Parma prima per Genova (1938), poi per l’Ungheria, infine per il Portogallo, dove, a Lisbona, divenne nel 1941 direttore dell’Istituto di Cultura Italiana, avendo frattanto fondato il Teatro-Estúdio do Salitre (che diresse fino al ’50), fulcro del rinnovamento teatrale lusitano.

6. L’ultima delle quali è “nostrana”, caldeggiata (e prefata) da Stefano Spagnoli: Parma, Mup, 2003.

7. Dal 1955 (cioè dopo la morte di Colombi Guidotti) Squarcia diresse propriamente il «Raccoglitore» (1951-1959), di cui fin dall’inizio era stato di fatto, oltreché collaboratore, “garante”.

8. Da allora scrisse per parecchie testate («La Notte», «Il Tempo di Milano», «Il Corriere Lombardo»…); fu redattore (dal 1950 al 1955) dell’«Illustrazione Italiana» e direttore (dal 1957 al 1963) di «Settimo Giorno»; nel 1956 divenne critico cinematografico, fino alla fine, del quotidiano milanese «Il Giorno». Fu di fatto direttore editoriale della Garzanti. Fu tra i primi in Italia a “scoprire” l’opera di Proust. Numerose le sue importanti pubblicazioni cinematografiche.

9. Oreste Macrì, Le mie dimore vitali, a cura di A. Dolfi , Roma, Bulzoni, 1998, pp. 45 e 48.

10. Nel maggio 1944, di ritorno da una delicata missione in Svizzera per il Comitato di Liberazione Nazionale Alta Italia, fu arrestato a Como dalla polizia fascista: prima fu seviziato a Milano dalle SS, poi mandato nel campo di sterminio di Flossemburg (nella Foresta Nera), dove, dopo le percosse e gli stenti, trovò la morte il 15 dicembre 1944, gettato ancor vivo nel forno crematorio.

11. Cenerentola, «Operetta-fiaba in 3 atti per la gioventù», Bergamo, ed. Carrara, 1936 [ma già in scena nel 1923]; e due “minime” plaquette: Fior-di-loto e L’usignolo ferito, Parma, Tip. F.lli Godi, rispettivamente 1942 e 1943.

12. Del giovane e già temuto critico (e poeta) fiorentino Aldo Borlenghi (Firenze, 1913 – Milano, 1978), che ebbe con Parma costanti rapporti, allora e in futuro, ricordiamo almeno il libro creativo d’esordio Versi e prose (Firenze, Parenti, 1943).

13. Quell’idea – una sorta di supplemento letterario all’interno del giornale – risulta antesignana di un’analoga impresa, più duratura e importante, negli anni Cinquanta, sempre sulla «Gazzetta di Parma »: quella cioè del «Raccoglitore», dal 1951 al 1959.

14. AAVV., Crisi della cultura e dialettica delle idee, a cura di L. Marini e I. Masulli, Bari, De Donato, 1976, p. 83. Fra i nomi dei collaboratori vi sono citati (pp. 83-87) Giancarlo Vigorelli, Aldo Borlenghi, Oreste Macrì, Francesco Squarcia, Lorenzo Bocchi, Mario Colombi Guidotti, e persino Ferdinando Bernini.

15. Mario Colombi Guidotti (1922-1955), narratore, e Gian Carlo Artoni (1923), poeta, furono, tra l’altro, critici e organizzatori di imprese culturali di primissimo piano: Colombi Guidotti diresse «Il Raccoglitore» dal 1951 al ’55; Artoni, oltre a condividere la redazione del «Raccoglitore», fu tra l’altro nel gruppo fondatore e
conduttore di «Palatina» (1957-1966).

16. Giuseppe Massari, Un dì quando le veneri. Racconto al presente di una rivista fascista, in «Aurea Parma», anno LXXXI, fasc. II, maggio-agosto 1997, p. 130.

17. Entrambe le raccolte furono pubblicate dall’amico Alessandro Minardi, fattosi editore proprio per l’occasione di Sirio.

18. In «Pan», 1° settembre 1934 (poi in Eugenio Montale, Sulla poesia, Milano, Mondadori, 1976).

19. La capanna indiana, “Biblioteca di Paragone”, Firenze, Sansoni, 1951.

20. In «Il Mondo», 1° dicembre 1945 (e così chiudiamo proprio con l’anno finale del presente ragguaglio).

21. Fra questi anche Vento, di cui ci siamo occupati sopra.

22. Se non si attua una pur tentante lettura dieretica di “pazïente” (che rivelerebbe un doppio senario).

23. Di là dalla situazione del “meriggio” di più generico, ampio e diverso, riscontro dannunziano-montaliano (ma anche pascoliano: valga «il meridiano ozio dell’aie», Myricae, Romagna, v. 16), cfr. «nell’ora meridiana» in D’Annunzio (Maia, Laus vitae, sez. XIX, «Felicità», v. 7816): ma poi contesto e tono sono davvero tutt’altra cosa.

24. Si tratta di un cocker spaniel, lo stesso che dà poi il titolo al cap. XXXIX della Camera da letto (Lo spaniel custode), ma già indicato fin dal cap. XXV col nome di «Flush», e col corredo di un’affettuosa e autoironica nota d’autore: «[…] Regalato cucciolo a Maria [la madre del Poeta], passa a N. e A. [scil.: Ninetta e Attilio] che gli dà con sfacciato snobismo il nome del cane di Elisabeth Barrett Browning biografato deliziosamente dalla Woolf».

25. Tratti biografici, dopo il ’45; nel 1951 si trasferisce con la moglie a Roma; i due figlioletti (nel ’47 è nato il secondogenito, Giuseppe), temporaneamente affidati ai nonni a Baccanelli, li raggiungeranno nell’estate del ’52. A Roma, oltre a scrivere per giornali e riviste (fra queste «Paragone», «La Fiera Letteraria», «L’Approdo letterario », «Nuovi Argomenti»), prende i primi contatti con la radio, con la nascente televisione e con il mondo del cinema, e collabora a programmi RAI e sceneggiature cinematografiche. Conosce, fra gli altri, Carlo Emilio Gadda e Pier Paolo Pasolini. Nel 1954, abbandonata la scuola (insegnava allora Storia dell’arte al liceo “Virgilio” di Roma), diviene consulente della Garzanti, e assume la direzione della rivista dell’ENI «Il gatto selvatico» (fino al 1965). Negli anni, il Poeta usa passare l’estate un po’ a Tellaro (La Spezia) e un po’ nella sua Casarola; tornando quindi sistematicamente anche a Parma. Dove – aumentata frattanto sensibilmente l’attenzione per la sua figura e la sua opera – riceve crescenti testimonianze di stima e affetto, insieme a ufficiali riconoscimenti e tributi significativi (fra cui la laurea ad honorem conferitagli nel 1984 dall’Università di Parma). Attilio Bertolucci si spegne il 14 giugno 2000 nella sua casa romana nel quartiere di Monteverde: al suo capezzale la moglie e i due figli. A Parma e a Casarola vengono reiterati, da allora, tributi costanti di affettuoso e grato ricordo.

BIBLIOGRAFIA DI BASE

AA.VV., Officina parmigiana, a cura di Paolo Lagazzi, Parma, Guanda, 1994.
P. BRIGANTI, Poeti di Parma nel Novecento, Parma, Battei, 2002.
R. LASAGNI, Dizionario biografico dei parmigiani (1999), aggiornamento elettronico: Copyright 2009 ©: Istituzione Biblioteche del Comune di Parma.

 
 
   Portale dedicato alla Storia di Parma e a Parma nella Storia, a cura dell'Istituzione delle Biblioteche di Parma
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